In tempi come questi, è fondamentale che la squadra palestinese giochi. Ciò dimostra la nostra resilienza.
La nazionale di calcio palestinese è tornata ufficialmente in campo nella scorsa finestra di calcio dedicata alle Nazionali per giocare due partite valide per le qualificazioni della Confederazione Asiatica del Calcio (AFC) ai prossimi mondiali che si disputeranno in ben tre nazioni: Stati Uniti, Messico e Canada.
Una situazione quantomeno particolare se si pensa a quel che sta succedendo a Gaza – da quattro settimane – e che, ovviamente, non poteva non avere un suo riverbero anche in campo e sugli spalti.
Libano vs Palestina
Nel corso del primo match giocato lo scorso 16 novembre contro il Libano sul campo neutro Khalid Bin Mohammed Stadium di Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, e terminato 0 a 0, i calciatori palestinesi sono scesi in campo portando con sé le foto di alcune delle vittime dell’offensiva israeliana, con le quali si sono fatti immortalare per lo scatto di rito che precede l’inizio delle partite.
Un momento molto toccante che è servito a ricordare le vittime dell’invasione di Israele e contemporaneamente a sottolineare come in quegli stessi momenti tantissime altre persone a Gaza stessero lottando per la sopravvivenza, provando a ripararsi dai raid e dai bombardamenti israeliani. Persone come Ibrahim Abuimeir, il ventunenne difensore centrale del Khadamat Rafah o come Ahmed Kullab e Khaled Al-Nabris i due centrocampisti centrali dell’Al-Ittihad SC, tutti e tre convocati dalla nazionale palestinese ma costretti a non rispondere alla chiamata poiché bloccati a Gaza, dove ogni giorno rischiano la vita.
Il calcio sotto occupazione
Rischiare la vita, proprio come capitato allo stesso Ibrahim Abuimeir, la cui casa è stata colpita nel corso di un bombardamento aereo lo scorso 30 ottobre quando l’abitazione di un suo vicino è stata completamente distrutta. 17 persone sono morte nel corso di quel raid e decine sono rimaste ferite. “Abbiamo trovato solo uno dei corpi intatti. Gli altri sono stati fatti a pezzi. Non siamo riusciti a tirarli fuori dalle macerie. Li abbiamo dovuti identificare riconoscendo quel che rimaneva dei loro corpi. Anche i miei nonni sono rimasti feriti. Ci abbiamo messo due giorni per tirarli fuori dalle macerie” la testimonianza del calciatore ad un giornalista freelance che lavora per la BBC a Gaza.
È andata peggio a due compagni di squadra di Ahmed Kullab uccisi mentre “erano seduti nelle loro case pensando di essere al sicuro, quando sono state colpite dai bombardamenti”. Una condizione che diventa brutale normalità quando si è costretti da decenni a vivere costantemente sotto assedio. “Il pericolo è sempre presente a Gaza e la mia famiglia si sposta costantemente per trovare luoghi più sicuri in cui rifugiarsi“. Le condizioni di vita sono a dir poco disumane: l’acqua salata arriva solo una o due volte alla settimana. Per l’acqua potabile, invece bisogna affidarsi ai pozzi e alla desalinizzazione dell’acqua utilizzando l’energia solare”
Ma è bene ricordare che per la popolazione palestinese questa era la “normalità” da ben prima del 7 ottobre e i calciatori, in questo, non facevano di certo eccezione. Anche raggiungere, banalmente, il campo di calcio dove potersi allenare era un’impresa, figurarsi andare a giocare all’estero per rappresentare la propria nazionale. Un vero e proprio calvario, costellato di umiliazioni e pericoli. Perché i calciatori palestinesi, generalmente, in occasione delle trasferte internazionali, sono costretti a lasciare le loro case alle 6 del mattino del giorno precedente per riunirsi nei pressi del valico di Rafah, per poi aspettare ore ed ore – in una sala sul lato palestinese del valico – fino al completamento delle pratiche burocratiche prima di poter passare sul lato egiziano. Ma alle volte capita che non gli venga dato il permesso di entrare autonomamente in Egitto e che vengano scortati all’aeroporto e tenuti in una stanza fino all’ora del volo. Così è frequente che impieghino anche due giorni di viaggio per una trasferta che richiederebbe al più qualche ora di volo. Superfluo soffermarsi su quanto tutto ciò incida sulla tenuta mentale e fisica degli atleti e quel che vuol dire in termini di risultati sportivi.
Palestina vs Australia
Il 21 novembre è andata in scena la seconda partita prevista per questa finestra di impegni validi per le qualificazioni alla Coppa del Mondo del 2026. Avversaria della Palestina, l’Australia di capitan Irvine, una delle favorite a staccare il pass diretto per la fase finale della competizione mondiale. Partita che si è rivelata più difficile e chiusa del previsto con la compagine palestinese sconfitta di misura (0 a 1) dal goal messo a segno al diciottesimo minuto del primo tempo dal centrocampista del Leicester di Enzo Maresca, Harry Souttar. Match disputato sul campo neutro del Jaber al Ahmad International Stadium in Kuwait, per espresso volere della FIFA che ha respinto la disponibilità manifestata dalla Federazione di Calcio Algerina di ospitare le partite della nazionale della Palestina e di provvedere a tutte le spese relative all’organizzazione delle partite. Un fattore che sicuramente ha influito sulla prestazione della Palestina che ha dovuto fare a meno anche del classico vantaggio dato dal giocare davanti al proprio pubblico, a causa dell’invasione di Israele nella Striscia di Gaza che rende materialmente impossibile per la nazionale palestinese giocare le partite casalinghe in Palestina, anche perché i bombardamenti israeliani hanno letteralmente spazzato via la maggior parte degli impianti sportivi, come nel caso dello stadio Yarmouk di Gaza.
Per questo assume un valore ancora maggiore la decisione della Federazione Australiana e del PFA – Professional Footballers Australia – il sindacato dei calciatori australiani, presieduto proprio da Irvine (capitano oltre che dell’Australia anche del St.Pauli) di donare parte dei loro guadagni relativi alla partita all’organizzazione umanitaria Oxfam che opera a Gaza tramite proprio il trust del PFA perché come spiegato dal co-amministratore delegato Beau Busch “i pensieri della PFA sono rivolti a tutti coloro che sono colpiti dal conflitto e dalla crisi umanitaria che si sta manifestando di conseguenza“. Una decisione consapevole e frutto del confronto tra i calciatori e lo staff dei socceroos – soprannome della nazionale australiana – “è qualcosa di cui siamo consapevoli, qualcosa di cui abbiamo parlato come gruppo e come staff non solo in termini di gioco, ma riconoscendo cosa significa per noi una tale situazione. Anche pensando ai giocatori palestinesi stessi e a cosa significa il calcio per loro. Ne abbiamo parlato e attraverso la PFA proveremo a dare qualche tipo di contributo o consapevolezza per provare a ricoprire qualche ruolo” è quanto ha fatto sapere Irvine alla vigilia della partita.
Partita che ha visto le due squadre osservare, prima del fischio d’inizio, un minuto di silenzio per le oltre 13.000 vittime palestinesi, di cui almeno 5.000 bambinə e più di 3.000 donne, mentre sugli spalti dello stadio centinaia di bandiere palestinesi venivano sventolate al cielo dalle tante persone accorse per la partita ma soprattutto per manifestare la propria solidarietà con il popolo palestinese. Tra i calciatori di casa abbracciati tra loro, attorno al cerchio di centrocampo, con la kefiah al collo per osservare il minuto di silenzio anche Ataa Jaber, centrocampista ventinovenne del Neftçi Baku, squadra della massima serie azera, convocato per la prima volta dalla nazionale della Palestina lo scorso 14 giugno in occasione della partita terminata sullo 0 a 0 contro l’Indonesia.
Storie, fatti ed aneddoti che abbiamo voluto raccontare per portare a galla alcuni di quegli aspetti collaterali che l’occupazione israeliana – e l’attuale operazione militare – porta con sé e a cui troppo poco si pensa quando ci si ferma a ragionare sulla natura della questione palestinese. Il processo di normalizzazione dell’occupazione e la disumanizzazione di un intero popolo sono armi potentissime che la politica israeliana utilizza da anni per spostare l’opinione pubblica internazionale dalla propria parte. Propaganda che, come spesso accade, utilizza anche lo sport – e il calcio in particolare – come strumento di guerra; una guerra sporca portata avanti non solo con bombe e carri armati ma anche con menzogne, pressioni e subdole ritorsioni che hanno conseguenze devastanti per centinaia di migliaia di vite umane. Perché, spesso, le parole ed i gesti di chi è un riferimento sportivo per milioni di persone, possono risultare più potenti delle bombe stesse, capaci di cambiare gli equilibri della percezione di un conflitto e trasformare la vittima in carnefice. Ed allora proprio per questo è necessario continuare a parlare di quel che avviene in Palestina, di quanto sia – anche in tempi di “normalità” – difficile poter anche semplicemente dedicarsi alla propria passione quale può essere il calcio così da dare ulteriore forza a quello che è il pensiero di chi vive sulla propria pelle tutta la brutalità e la violenza dell’oppressione israeliana.
Il calcio non è semplicemente un gioco ma uno strumento attraverso il quale lottano per realizzare il sogno di uno Stato ufficialmente riconosciuto per ogni palestinese. Il calcio è un modo potente per dimostrare che i palestinesi, nonostante le sfide che devono affrontare, sono esseri umani, con le loro ambizioni, sogni e talenti.
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