8 febbraio 2013: le fiamme divampano nella sede sociale di una società di calcio israeliana. Quasi certamente non si tratta di incidente, ma di attacco doloso. Il club che ne è stato fatto oggetto è il Beitar Jerusalem e le cause del gesto vanno probabilmente ricercate nel recente acquisto di due calciatori. Qualche settimana prima, infatti, il Beitar ha acquistato Gabriel Kadiev e Zaur Sadayev, due giocatori ceceni. Si sa che a volte le tifoserie non gradiscono alcuni acquisti per una molteplicità di motivi che non staremo qui a riassumere. E, anche in questo caso, Gabriel e Zaur non risultano graditi. Per nulla. Il problema per la tifoseria del Beitar non è però che i due siano ceceni; è che sono musulmani. Il club di Gerusalemme, così come praticamente tutti i club israeliani, ha una storia che si intreccia in maniera inestricabile con politica e religione. Non si tratta solo di sport. La società deve infatti il suo nome ad un movimento della gioventù sionista che negli anni ’40 del secolo scorso aveva strettissimi legami con un partito di estrema destra, Herut, fondato da Menachem Begin (l’Herut si fonderà poi in quello che oggi è il Likud). Le sorti della società sono andate in parallelo con quelle dei partiti politici di riferimento; così, alla metà degli anni ’70, il primo titolo nazionale del Beitar arrivò in corrispondenza con la prima vittoria elettorale del Likud, portatore di un nazionalismo di destra ed oggi partito del primo ministro Netanyahu. Il Beitar è l’unico club israeliano a poter “vantare” il record di non aver mai fatto siglare un contratto ad un calciatore appartenente alla componente araba della popolazione che vive all’interno dei territori occupati nel 1948 e che oggi rappresenta il 20% del totale.

La tifosera del Beitar

La tifoseria del Beitar ha una lunga storia, fatta di razzismo, xenofobia, ed islamofobia. Uno dei cori preferiti sulle curve è “Morte agli arabi“. Poco prima dell’arrivo dei due giocatori ceceni, è stato issato uno striscione che recitava “Beitar per sempre puro“. Per capire il livello di intolleranza di cui questa tifoseria è espressione aggiungiamo che Gabriel e Zaur sono stati fatti oggetto di aggressioni verbali e di sputi; per di più, sono costretti ad effettuare gli spostamenti da e verso il campo di allenamento sotto la scorta della polizia e con l’ausilio di una compagnia di sicurezza privata. Un appartenente alla tifoseria del Beitar si è presentato agli allenamenti della sua squadra del cuore indossando una maglietta con cui esprimeva un messaggio ben chiaro: “Maometto è morto al 100%”. La fazione meglio organizzata e più radicale della tifoseria della squadra di Gerusalemme è conosciuta col nome di “La Familia”. Nato nel 2005, il gruppo è solito distinguersi per il verso della scimmia contro calciatori neri e per cori anti-islamici ed anti-arabi. Alcuni dei suoi membri sono stati accusati di aver aggredito addetti alla manutenzione dei campi del club semplicemente perché palestinesi. Inoltre, hanno aggredito verbalmente il manager del Beitar, Kornfein, colpevole di essersi espresso contro il razzismo nel calcio. E, se proprio qualcuno avesse ancora dei dubbi sul loro conto, il giorno prima dell’arrivo dei due nuovi acquisti ceceni un membro de La Familia ha rilasciato ad un giornale israeliano un’intervista in cui tra le altre cose dichiarava: “Io sono razzista. Odio gli arabi […] Se ci portano in squadra dei musulmani, i tifosi ridurranno in cenere il club. Non può essere: gli arabi e il Beitar Jerusalem non sono compatibili“. Sono in molti a sostenere che “La Familia” non possa essere considerata rappresentativa degli umori e delle posizioni dell’intera società israeliana. E nessuno lo nega. Ma, a volte, nei tentativi di dissociazione si possono ravvisare problemi ben più profondi di quelli che emergono da quelli che spesso passano per “gruppi di fanatici estremisti”. Al campo del Beitar, a poche ore dall’incendio degli uffici del club, una persona che tifa Beitar, Yaniv Pesso, 43 anni, ha condannato “La Familia”: “Sono stupidi. Sono pochissimi, come una piccola mafia, ma fanno sentire forte la loro voce. A me non piacciono i musulmani, ma lo sport è sport”. Queste dichiarazioni lasciano trasparire elementi di grande preoccupazione. Voler dipingere “La Familia” come un gruppo altro da sé, per di più di un’alterità irriducibile, fondata su stupidità e violenza, costituisce il tentativo di allontanare fantasmi che invece sono ben presenti. La frase “a me non piacciono i musulmani” non necessita forse nemmeno di un commento approfondito, tanto è evidente il razzismo di chi proferisce una simile affermazione. Ma, anche qui, dalle dichiarazioni di una persona che tifa Beitar difficilmente si possono costruire delle generalizzazioni valide per l’intera società israeliana o, quanto meno, per la sua maggioranza.

Potrebbe darsi, infatti, come sostiene Tamar Herman dell’ “Israeli Democracy Institute”, che “i club di calcio sviluppano sottoculture che non riflettono necessariamente l’intera società che li circonda“. A star però a sentire Avraham Burg, ex membro della Knesset (il parlamento israeliano) ed ex portavoce della “World Zionist Organization”, la situazione dovrebbe essere osservata da tre prospettive diverse. “Il quadro più piccolo è che ogni club di calcio ha un suo gruppo di tifosi, estremisti e fanatici. Lo spirito del Beitar è interpretato da questo gruppo come etnico, religioso, razzista, xenofobo ed islamofobo. Il quadro intermedio è quello di Gerusalemme. Ad oggi è di vedute ristrette, una città che si pone da sola dei limiti, in cui le due comunità (arabi ed ebrei) vivono separate. Il quadro più grande si costruisce a partire dal quesito sul se tutto ciò sia simbolo di un problema più grande all’interno di Israele. La risposta è senza dubbio sì. È una combinazione di razzismo e xenofobia, ma il razzismo è legato all’estremismo religioso”. Troppo spesso, poi, le istituzioni risultano complici delle formazioni più “estremiste”. Rimanendo sempre alla tifoseria del Beitar, nel 2012, in occasione della trasferta che opponeva la loro squadra al Bnei Sakhnin, fino ad allora l’unico club della serie A israeliana rappresentativo di una città arabo-israeliana, alcune centinaia hanno offeso ed aggredito alcune persone palestinesi che stavano lavorando e una parte della clientela di un centro commerciale in prossimità dello stadio. Nessuno tra chi ha partecipato all’aggressione, identificati per lo più come membri de “La Familia”, è stato arrestato. Più di recente, invece, in occasione della partita giocata lo scorso 17 gennaio, nello stadio di casa del Beitar, il Teddy Collek di Gerusalemme, contro il Maccabi Bnei Reineh, seconda squadra arabo-israeliana nella storia a giocare nella Serie A israeliana, la tifoseria di casa ha dato vita ad una coreografia che – ora più di ieri – sa di vero e proprio manifesto politico. Uno striscione con su scritto “questa è la mia nazione e io qui sono il capo” è stato esposto sotto un enorme bandierone di Israele per non lasciare spazio a nessun fraintendimento. Un messaggio intrinsecamente violento e razzista che aveva, evidentemente, nella tifoseria a prevalenza musulmana del Maccabi Bnei Reineh il suo destinatario principale ma che, immaginiamo, sarà suonata come una minaccia anche per le centinaia di migliaia di arabi-israeliani ed ovviamente per la popolazione palestinese.

Ritornando invece alle parole di Tamar Herman che sostiene che il sentimento anti-arabo in Israele sia qualcosa di diverso rispetto all’islamofobia in Europa, perché il primo “è basato su un conflitto di interessi. Non è per il fatto di essere arabi o musulmani, ma le cause vanno ricercate nella lotta continua per il possesso della terra“, non si può che essere d’accordo. Il razzismo interviene come giustificazione teorica (non importa qui discutere se di grande spessore intellettuale o meno) di una situazione di fatto: nel caso del conflitto arabo-israeliano dell’occupazione israeliana della Palestina. Per cui il razzismo non può essere sconfitto semplicemente con l’educazione e con le buone parole e nemmeno con qualche buona legge; il razzismo israeliano si sconfigge solo mettendo fine all’occupazione.

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