Che il calcio sia lo sport al maschile per eccellenza è abbastanza noto. Che il suo mondo ne sia il riflesso più fedele pure. Non stupisce, quindi, che si faccia abbastanza fatica a trovare una dirigente, un’addetta ai lavori o anche una giornalista che sia presa realmente in considerazione e vista al pari del collega maschio. Spesso e volentieri le donne nel calcio vengono marginalizzate, sottovalutate e ridotte a mero oggetto bello da vedersi ma sostanzialmente poco adatto a parlare con cognizione di causa del gioco del calcio. Situazione che assume contorni ancora più preoccupanti se ci si sofferma ad analizzare la mappa del tifo. È davvero raro trovare all’interno delle tifoserie organizzate donne, figurarsi donne che abbiano un ruolo di rilievo. Ma quel che maggiormente impressiona è che questa fotografia – assolutamente contestabile e sommaria – viene presa dalla maggior parte delle persone come un qualcosa di naturale, difficilmente mutabile e incredibilmente normale. Per attingere dal gergo religioso, anche perché in un certo qual senso il calcio è fenomeno religioso, parleremmo di “legge naturale di dio”. 

L’ambiente calcistico è universalmente riconosciuto (difficilmente da chi lo vive da dentro) come uno tra i più problematici relativamente alle questioni di genere. Basti pensare che abbiamo dovuto aspettare il 2021 per venire ufficialmente a conoscenza del primo calciatore omosessuale della storia, quel Joshua Cavallo, calciatore australiano che affidò il messaggio ai suoi social: “Oggi sono finalmente pronto a parlare di qualcosa di personale, sono orgoglioso di annunciare pubblicamente che sono gay”. E parlando di uno sport ultracentenario ci viene veramente difficile credere che calciatori omosessuali o comunque non eterosessuali si contino sulle dita di una mano, molto più probabile che l’ambiente altamente maschilista ed omofobo non invogli a farsi avanti. In Italia ne sappiamo qualcosa pensando all’accoglienza riservata questa estate a Jakub Jankto, il calciatore più conosciuto ad aver fatto coming out, che dopo aver firmato con il Cagliari è stato accolto con parole omofobe ed inadeguate dal ministro dello sport Abodi: ”Se devo essere sincero non amo, in generale, le ostentazioni, ma le scelte individuali vanno rispettate per come vengono prese e per quelle che sono”. Siamo di fronte ad un ambiente intriso di sessismo, machismo ed omofobia, spesso e volentieri neanche percepiti come tali che, non di rado, si manifestano nella loro forma più brutale quale la violenza di genere che, meglio chiarire, è piaga condivisa di tutta la nostra società e non esclusiva del mondo del calcio. 

A chi di noi non viene in mente il nome di almeno un calciatore che ha commesso una violenza nei confronti di una donna? Chi non avrà letto o sentito una qualche notizia riguardante un calciatore implicato in qualche caso legato a violenza di genere? Di esempi, purtroppo, ce ne sarebbero così tanti che è difficile tenere il conto e perfino distinguere quali società prendono provvedimenti nei confronti dei propri tesserati e quali no. Perché forse peggio della violenza in sé è solo il sistema che la genera e che, senza vergogna, si autoassolve, giustificando e proteggendo chi si macchia di simili gesti. 

Robinho, Dani Alves, Jérôme Boateng, Mason Greenwood, Manolo Portanova, Demba Seck sono solo alcuni dei calciatori condannati e/o accusati di violenza nei confronti di una donna che – per lo più – continuano regolarmente a giocare come se nulla fosse perché quando si parla di un personaggio pubblico che potrebbe aver abusato – in qualche modo – di una donna ci riscopriamo una società garantista al di là di ogni ragionevole certezza. Quella stessa società che, però, è altrettanto giustizialista se protagonisti di vicende di cronaca sono immigrati o rom. Insomma quel doppio standard che abbiamo imparato a conoscere molto bene negli ultimi sei mesi in relazione al genocidio in corso in Palestina e che sarebbe più opportuno chiamare con il suo vero nome: complicità. 

Solo così si spiega come mai Robinho, ex di Real Madrid e Milan, condannato per violenza sessuale qui in Italia, sia riuscito a rimanere fuori di galera per anni ed anni prima che il nuovo governo Lula ne confermasse l’arresto, o come Demba Seck, attualmente in prestito al Frosinone ma di proprietà del Torino, sia uscito “pulito” da un caso conclamato di revenge porn grazie ad un PM tifoso che ha letteralmente fatto sparire ogni prova a suo carico e “consigliato” la vittima di concludere un accordo economico anziché procedere per via giudiziaria; o ancora come sia possibile che Dani Alves, uno dei calciatori più vincenti della storia, al netto di ben 6 versioni diverse rilasciate alle autorità, oggi sia in libertà vigilata dietro il pagamento di una cauzione da 1 milione di euro che, sembra, essere stata gentilmente pagata da un’emittente TV brasiliana che vuole raccontare la sua storia, mica quella della vittima!; o ancora come sia possibile che nella storia che ha visto, suo malgrado, protagonista una dipendente dell’AS Roma, lei sia stata licenziata mentre il calciatore della Primavera che ha diffuso senza alcun consenso il video intimo privato della donna costatole il licenziamento, non abbia ricevuto neanche una tirata d’orecchie (senza considerare il fatto che diffondere materiale intimo privato senza consenso è un reato a tutti gli effetti), per non parlare poi di casi come quelli di Jérôme Boateng o Manolo Portanova che nonostante le condanne (per il calciatore di proprietà del Genoa la condanna è relativa al primo grado in attesa dei successivi) continuano a calcare i campi della nostra serie A e serie B, con due società – Salernitana e Reggiana – che non hanno ritenuto “poco opportuno” mettere sotto contratto i due calciatori. 

Le cose, fortunatamente, cambiano abbastanza se dal mondo del calcio maschile ci si sposta in quello femminile. Non tanto in termini di incidenza di un fenomeno, che, come dicevamo, in quanto conseguenza delle sovrastrutture che regolamentano la nostra società, è purtroppo fin troppo presente quanto piuttosto in termini di risposta e, in parte, di denuncia. Secondo un’inchiesta della giornalista Camila Alves, condotta per Globo Esporte e pubblicata lo scorso 18 marzo, su 209 giocatrici intervistate, provenienti da club di tutto il Paese, il 52,1% di loro ha subito molestie sessuali e morali. Una calciatrice ha rivelato, addirittura, di aver ricevuto richieste di foto intime da parte di un allenatore, che – in cambio – le avrebbe promesso trattative migliori con il club. Solo il 14,7% delle atlete ha segnalato, però, gli abusi, sentendosi poco tutelate da un sistema che fa veramente fatica a prendere decisioni di un certo tipo. Basti pensare che dei 133 casi segnalati appena 17 hanno portato a rimozioni, licenziamenti o arresti. Dati che confermano, ancora una volta, il pessimo rapporto tra mondo del calcio e violenza di genere. 

Di contro, se nel mondo del calcio maschile siamo, sostanzialmente, abituati ad un vergognoso cameratismo – è veramente raro che qualche calciatore prenda parola per esprimere solidarietà nei confronti della vittima, molto più probabile che apra bocca per difendere l’onore del collega – che genera immediatamente un meccanismo di “rovesciamento dei ruoli” con la vittima che spesso e volentieri viene fatta passare come quella che potrebbe essersi inventata tutto per un attimo di notorietà o per ottenere un vantaggio economico, nel mondo del calcio femminile c’è – decisamente – molta più consapevolezza e compattezza nel denunciare e condannare questo fenomeno. 

Chiunque di noi probabilmente quest’estate avrà seguito – o almeno avrà letto – del caso che ha visto coinvolti l’ex numero uno della Federazione calcistica spagnola, Luis Rubiales, e la calciatrice della nazionale spagnola Jenni Hermoso a cui il dirigente spagnolo ha strappato un bacio non consensuale, in mondovisione, nel corso della cerimonia di premiazione per la vittoria dei Mondiali di calcio femminile. Un caso che ha fatto passare in secondo piano la vittoria delle atlete spagnole che hanno alzato la coppa al cielo ma che non ha offuscato la straordinaria forza tecnica, umana e morale, di un gruppo che ha dimostrato al mondo intero che vale sempre la pena lottare per le proprie idee, a maggior ragione se si è oggettivamente dalla parte della ragione. Così Jenni Hermoso non ha ceduto alle pressioni della Federazione che ha fatto di tutto e di più per evitare che il caso deflagrasse, le compagne di nazionale hanno fatto quadrato attorno alla compagna – prima esprimendo piena solidarietà attraverso alcuni comunicati e poi minacciando di non rispondere più ad alcuna convocazione se Rubiales&co. non fossero stati rimossi dai loro incarichi e posizioni di potere. Una determinazione che ha coinvolto tutto il mondo del calcio femminile mondiale con atlete di tutti i continenti che nelle settimane successive hanno preso posizione ed espresso solidarietà a Jenni Hermoso e a quella che, oramai, era diventata una lotta al sessismo e alla violenza di genere che dominava la piramide gerarchica del calcio spagnolo e non solo. Rubiales e i suoi più fedeli collaboratori, arroccati sulle proprie posizioni arroganti e indifendibili, hanno dovuto pian piano cedere sotto i colpi della voglia di giustizia delle calciatrici spagnole a cui, e non c’è da meravigliarsi, è mancato proprio l’appoggio dei colleghi. Salvo rarissime eccezioni e la presa di posizione della nazionale maschile che, però, nonostante tutto, sapeva più di formalità che di reale consapevolezza e desiderio di minare le fondamenta di un sistema fondato sulla prevaricazione e la violenza, psicologica e fisica, il mondo del calcio al maschile, anche in questa occasione, si è dimostrato cieco e sordo dinanzi l’esplodere in tutta la sua brutalità della violenza di genere. 

Esseri umani, ancor prima che atleti, disposti a prendere parola e ad esporsi per difendere i propri compagni accusati (e il più delle volte condannati) di violenze sessuali e totalmente restii ad appoggiare e solidarizzare con le battaglie delle colleghe vittime di quei meccanismi che sono alla base delle discriminazioni e delle violenze di genere. In un ambiente altamente tossico, del resto, porta più vantaggi – mediatici e di carriera – schierarsi (o tacere) con chi è palesemente dal lato sbagliato della storia ma che detiene il potere, piuttosto che con la vittima – nonostante sia senza ombra di dubbio dalla parte della ragione. 

Una tesi che assume i contorni di una scienza perfetta se si prende in considerazione anche l’ultimo episodio che ci ha costretto, nuovamente, a parlare di violenza sessuale nel mondo del calcio. Siamo in Brasile, nella sezione femminile di in uno dei club più titolati e conosciuti al mondo: quel Santos che ha avuto tra le sue fila calciatori del calibro di Pelè, Coutinho e Neymar. Il 13 aprile scorso in occasione della gara tra il Santos ed il Corinthians, le calciatrici del Timão prima del fischio di inizio si sono coperte la bocca e le orecchie con le mani, in segno di protesta per la presenza sulla panchina avversaria dell’allenatore Kleiton Lima. Un gesto che verrà ripetuto anche dalle calciatrici di altre squadre brasiliane come il Cruzeiro e l’Atlético Mineiro o come il Palmeiras e l’Avai/Kindermann le cui calciatrici si sono schierate sulla linea del centrocampo tutte assieme con al centro, spalle a favore di telecamera, le due atlete che indossano il numero 19. Erano state proprio 19, infatti, le lettere anonime da parte di altrettante calciatrici del Santos che a settembre erano arrivate all’attenzione della dirigenza dei Peixe in cui denunciavano di aver subito molestie verbali e sessuali da parte del loro allenatore, Kleiton Lima. Denunce a cui, a detta della società era seguita un’indagine coordinata anche dalle forze dell’ordine che – però – si era conclusa con un nulla di fatto. Si è trattato di argomenti estremamente deboli e fragili che hanno inutilmente messo in dubbio il buon nome del Santos le affermazioni con cui Thais Picarte, coordinatrice della sezione femminile del club, aveva – di fatto – chiuso la questione e reintegrato in società l’allenatore, nonostante le calciatrici avessero immediatamente fatto sapere di non essere mai state ascoltate da nessuno nel corso della presunta indagine. Il 2 aprile, quindi, Kleiton Lima tornava tranquillamente a sedere sulla panchina del Santos prima che la protesta, come detto, esplodesse dieci giorni più tardi portando alle dimissioni, si spera definitive, dell’allenatore. La tenacia e la determinazione delle calciatrici coinvolte, così come la solidarietà attiva di tantissime altre colleghe brasiliane, esattamente come nel caso Rubiales-Hermoso, hanno reso quelle denunce una battaglia collettiva e immediatamente politica. Sfruttando la  forza dirompente dei social sono riuscite a portare all’attenzione dei media internazionali una questione che altrimenti sarebbe stata – per l’ennesima volta – derubricata come inesistente o esagerata. Dimostrazione, una volta di più, di quanto la consapevolezza della necessità di dover lottare per i propri diritti sia requisito fondamentale per provare a migliorare la propria condizione come quella di altre milioni di donne ed atlete perché non sarà un sistema sessista e violento a regalare nulla, tanto meno una sacrosanta parità di genere!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Trending