“Bisogna fare quel che c’è da fare, come il sole che fa tutto il suo arco e non si ferma Quando viene la notte. Guardati intorno: precipitano i tempi. Questo è il momento, scegli la tua parte”

Si ascoltano questi versi di Marco Rovelli nei titoli di coda del documentario Rino Della Negra – calciatore partigiano. Versi dall’alta carica evocativa, che raccontano la scelta (il titolo del brano è, appunto, “La Scelta”) compiuta attivamente dalle donne e dagli uomini della Resistenza, tra i quali vi fu proprio il protagonista della pellicola in questione.

Genitori emigrati in Francia dal Friuli, una doppia vita parigina a metà tra lo sport e la lotta partigiana, la cattura, le torture, e la morte per mano nazista. Questo fu Rino Della Negra, e questo è ciò che raccontano oggi i due registi Daniele Ceccarini e Mario Molinari. La prima proiezione è avvenuta lo scorso 15 febbraio nel bellissimo contesto dell’Espace 1789, cinema e centro culturale a due passi dallo stadio Bauer, casa del Red Star FC, nel comune di Saint-Ouen-sur-Seine. È stato scelto questo luogo dai due realizzatori per il legame storico, sportivo, culturale, e politico che lega ancora oggi Della Negra alla cittadina a nord di Parigi. La proiezione è stata, infatti, organizzata su iniziativa degli ultras del Red Star, che si chiamano da una ventina d’anni Tribune Rino Della Negra, per ricordare sia un simbolo della lotta al Nazifascismo sia un loro ex giocatore.

Il documentario, come ha detto lo stesso Ceccarini durante il dibattito successivo alla proiezione, è stato girato con lo scopo di far conoscere soprattutto al pubblico italiano l’incredibile storia di questo partigiano morto appena ventenne, mosso da un’insaziabile sete di libertà. Per far ciò, Ceccarini e Molinari hanno realizzato una lunga serie di interviste e le hanno unite a numerose immagini d’epoca e alle illustrazioni realizzate da Alex Raso. Il risultato finale è toccante, crudo, e fa trasparire tutta la normalità di un ragazzo che scelse di lottare. Quest’ultimo è un aspetto essenziale della Resistenza: i partigiani erano persone comuni, persone come noi, persone che si distinguevano dai Nazifascisti non perché avessero una qualche innata dote eroica, ma perché scelsero di lottare per la libertà e non per l’odio. Riconoscere la normalità, la banalità, per dirlo alla Harendt, di essere un oppressore o un partigiano è fondamentale per capire quanto sia necessario scegliere. Per questo motivo quando ci si riferisce ai partigiani come a degli eroi è essenziale tenere bene a mente quanto fossero in realtà persone ordinarie, altrimenti corriamo il rischio di renderli delle figure irraggiungibili, e di conseguenza neanche solo lontanamente emulabili. Un processo che spingerebbe nella direzione opposta all’attivismo, alla partecipazione diretta alla vita sociale e politica dei nostri territori, dei nostri paesi. Questa necessità di normalità, di riportarci con i piedi per terra, è esacerbata da un elemento fondamentale del documentario: le lettere che Rino scrisse ai propri genitori e al proprio fratellino prima di essere giustiziato. Esse contengono dei passaggi che possono essere definiti in un solo modo: umani. Un’umanità che contiene tutto uno spettro di sentimenti che vanno dall’amore all’orgoglio, fino al sacrificio e al pentimento, con una banalità che rende tutto estremamente comprensibile. “Papino e mammina, siate forti, siate orgogliosi del vostro Rino”, e poi “Prendetevi una sbronza pensando a me”.

Un altro tema toccato dal documentario, altrettanto importante è il ruolo che le donne hanno avuto nella Resistenza. Non a caso i due registi hanno scelto unicamente testimonianze di figure femminili per raccontare cosa volesse dire lottare al fianco di Rino negli anni della guerra. Ciò aiuta a comprendere meglio quanto centrale fu l’apporto dato da molte donne alla vittoria sul Nazifascismo. Armi trasportate dentro borse con doppio fondo, binari fatti saltare in aria, messaggi recapitati clandestinamente, sono solo alcune delle infinite azioni messe in atto dalle partigiane, di cui troppo poco spesso si parla.

La pellicola affronta poi il macro-argomento dell’onnipresente macchina della propaganda nei regimi autoritari che prova ad orientare la percezione e il sentito popolare. Il tutto viene affrontato attraverso la narrazione di un episodio specifico, vale a dire il cosiddetto Affiche Rouge, ovvero il Manifesto Rosso. Rino faceva parte, sotto falso nome, del gruppo partigiano Manouchian (da Missak Manouchian, armeno, membro della Resistenza francese) col quale compì svariate azioni di resistenza; durante l’assalto ad un portavalori tedesco venne arrestato, processato sommariamente e in seguito giustiziato dalla Gestapo assieme a 22 suoi compagni. I Nazisti affissero 15.000 manifesti rossi con sopra le facce di dieci di questi ragazzi, riportanti la scritta “dei liberatori? La liberazione ad opera dell’esercito del crimine”. La propaganda nazifascista mirava a dipingere i partigiani come dei terroristi assetati di sangue, e per di più stranieri (furono scelti solo i visi di partigiani non francesi, e per la maggior parte ebrei). Il risultato, in tutta risposta, fu la comparsa di mazzi di fiori sotto ognuno di questi manifesti, ad onorare i caduti.

Ceccarini e Molinari riportano tanti altri episodi che ci aiutano a comprendere la violenza, la spietatezza e la disumanità del nazifascismo. I due, ad esempio, raccontano come i nazisti, in seguito alla fucilazione di Rino, spedirono alla famiglia del ventenne la giacca che indossava al momento della morte, crivellata di proiettili e sporca di sangue. Il tutto già abbastanza disgustoso e macabro senza considerare che la famiglia, trattandosi di azioni clandestine, non sapeva neanche che il figlio facesse parte della Resistenza. A ciò, la sorella del migliore amico di Rino aggiunge la descrizione delle visite settimanali della madre del ragazzo alla tomba del figlio, durante le quali le era vietato deporre fiori, o anche solo avvicinarsi troppo alla lapide.

Quella di Rino Della Negra è una storia ben nota in Francia, al punto che proprio l’anno scorso è stata affissa una targa dedicata ai partigiani del gruppo di Manouchian nel Pantheon di Parigi, sebbene inizialmente Macron avesse deciso di onorare unicamente la memoria di Manouchian e moglie, tralasciando gli altri 22 partigiani. Un gesto che, ovviamente, non deve far dimenticare la natura universale ed internazionale del sentimento e dei valori che muovevano i partigiani, intenti non solo a liberare la patria ma a lottare per una libertà ben più ampia che trascende dal concetto di nazione. Una storia che in Italia è decisamente meno conosciuta ma di cui sentiamo una forte esigenza soprattutto in un momento storico dove le Istituzioni che rappresentano lo Stato provano sempre più costantemente a mettere da parte e svuotare di significato la natura antifascista del nostro stesso paese, e in cui lo sport è sempre più incardinato sui binari del business-show venendo – anch’esso – privato della sua componente politica e sociale.

Due processi socioculturali molto presenti in Italia e che hanno avuto come padre putativo Silvio Berlusconi che, dal 1986 in poi, ha plasmato e utilizzato lo sport per dare vita e consolidare il proprio consenso che ha, poi, riversato nella politica. Il calcio, con l’ex Presidente del Milan, è stato letteralmente trasformato nell’industria che conosciamo oggi, esautorato di tutta l’aura sociale e politica nella quale era precedentemente immerso, diventando – per certi versi – il nuovo italianissimo oppio per il popolo proprio al pari della televisione, altro grande investimento di Berlusconi. Se oggi tifare una squadra di calcio non implica necessariamente portare avanti dei valori e degli ideali di un certo tipo è anche perché Berlusconi ha ridotto lo sport ad uno spettacolino “fine a sé stesso”, applicando la formula panem et circenses. Un meccanismo che ha riprodotto anche nel suo modo di intendere e fare politica: Berlusconi è entrato in politica per un interesse personale, ha fondato il proprio movimento dal nulla, ha letteralmente stravolto le regole del dibattito politico e ha scelto come nemico d’Italia i generici “comunisti”, strizzando contemporaneamente un occhio a fascisti e mafiosi.

Storie come quelle di Rino Della Negra, alla luce di tutto questo, assumono un valore ancora maggiore così come il documentario di Ceccarini e Molinari, opera necessaria non solo per ricordare il nostro passato ma soprattutto per sottolineare la continuità tra passato e presente così da rendere ancora più evidente la necessità di tornare a rendere lo sport, e il calcio in particolare, campo di scontro per l’egemonia politica e culturale, sottraendolo alla sua mercificazione e al suo lento ma inesorabile declino.

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