La Juventus guidata in panchina ancora da Igor Tudor, alle 3:00 di notte italiane di giovedì, ha fatto il suo esordio nel Mondiale per Club, battendo con un roboante 5 a 0 gli emiratini dell’Al Ain, con doppiette di Kolo Muani e Francisco Conceição e un sigillo del giovane Yildiz. Ma la vera notizia, quella che racconta molto di più di uno schema offensivo o di un risultato sportivo quale sia oggi la dimensione del calcio mondiale, è avvenuta qualche ora prima, lontano dal campo, nello Studio Ovale della Casa Bianca. A Washington, una delegazione del club bianconero guidata dal presidente John Elkann, insieme al tecnico Igor Tudor, all’ad Scanavino, al general manager Comolli e a Giorgio Chiellini – oggi responsabile delle strategie – ha incontrato Donald Trump, accompagnata da alcuni giocatori come McKennie, Weah, Locatelli, Gatti, Koopmeiners e Vlahović. Un incontro sbandierato dalla stampa statunitense ma assente – apparentemente – dall’agenda ufficiale della Casa Bianca, eppure organizzato con tutti i crismi del caso: fotografi, una maglia della Juventus con il numero 47 regalata al Taycoon, la presenza compiaciuta di Gianni Infantino – regista occulto dell’incontro – e una schiera di giornalisti.
Donald Trump, tenendo fede alla sua fama, ha sfruttato senza alcun problema l’occasione, tenendo una vera e propria conferenza stampa, con la Juventus a fare da sfondo, per rilanciare la sua agenda politica più aggressiva e retrograda. Dopo una battuta transfobica rivolta alla squadra: “una donna trans potrebbe mai giocare nella Juve?” – pronunciata senza che nessuno dei presenti battesse ciglio – ha virato subito sulla geopolitica, vantandosi della propria capacità di “decidere se intervenire o meno” in Medio Oriente, evocando apertamente scenari di guerra contro l’Iran. Anche in questo caso, nessuno dei dirigenti della Juventus ha detto o fatto nulla. Nessuna dichiarazione, nessuna presa di distanza. Il volto sorridente di Infantino ha completato il quadro: un’istituzione sportiva mondiale come la FIFA e un club storico d’Europa, oggi apparentemente a loro agio nel ruolo di comparse in un teatro di propaganda transfobica e bellicista.
Dietro l’apparenza del semplice “incontro di cortesia”, si intravede – infatti – un’operazione altamente politica. Perché Elkann non è soltanto il presidente della Juventus. È il vertice di Exor, la holding della famiglia Agnelli, e soprattutto di Stellantis, il colosso automobilistico che ha nel mercato nordamericano uno dei suoi centri nevralgici. Solo nel 2024, Stellantis ha annunciato oltre 5 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti, con nuovi impianti in Michigan, Indiana e Illinois, e un piano di elettrificazione strategico che punta a consolidare la presenza del marchio Jeep, cuore pulsante del made in USA nel portafoglio del gruppo. Il rapporto con la politica americana, e in particolare con Trump, dunque, non è un dettaglio secondario: è un tassello fondamentale nella strategia di lungo termine del gruppo.
Il Presidente degli Stati Uniti, da parte sua, ha già dimostrato negli anni passati una predilezione per il protezionismo industriale, una deregulation ambientale che farebbe comodo a Stellantis e una retorica fortemente pro-manifattura nazionale, sfociata nella politica dei dazi inaugurata non appena tornato alla Casa Bianca. E, secondo gli analisti, proprio la Stellantis sarebbe fra le aziende maggiormente esposte al rialzo delle barriere doganali da parte di Trump, a meno che, appunto, non avesse deciso di allineare una quota significativa della produzione al nuovo mantra America First…
In questo quadro, la Juventus diventa moneta di scambio: un brand globale, riconoscibile, popolare, “prestato” al servizio della legittimazione politica. A che prezzo? A quello di accettare silenzi imbarazzanti su temi di diritti civili, guerra, e retoriche d’odio.
Il punto centrale, dunque, non è solo che un club di calcio abbia incontrato un leader politico. È che quel leader sia noto per le sue posizioni discriminatorie, autoritarie e apertamente guerrafondaie. E che l’incontro sia avvenuto senza che nessuno – Elkann in primis – abbia sentito il dovere di smarcarsi da quanto accaduto. Non si tratta di ingenuità diplomatica o di un errore di comunicazione ma di una precisa scelta di campo. E se i media nostrani tacciono a riguardo è anche perché Elkann rappresenta una delle famiglie più influenti d’Italia e d’Europa, con una rete di interessi che attraversa politica, finanza, media e sport.
In questo contesto, fanno riflettere le parole pronunciate – dopo l’incontro – da Timothy Weah, calciatore statunitense dei bianconeri. Dichiarazioni che, a un primo ascolto, potrebbero sembrare una timida presa di distanza, ma che in realtà finiscono per assolvere tanto la Juventus quanto Trump, normalizzando una scelta che non è affatto neutra. “È stato tutto una sorpresa per me, onestamente. Ci hanno detto che dovevamo andare e non avevo scelta… Quando ha iniziato a parlare di politica, dell’Iran e tutto il resto, è stato tipo: ‘io voglio solo giocare a calcio, amico’.” Ma l’idea che “non ci fosse scelta” è pura retorica, soprattutto per chi, come un calciatore di Serie A, gode di un’enorme visibilità e privilegio economico. Non lo diciamo noi: lo dimostrano figure come Megan Rapinoe, capitana della nazionale femminile USA e attivista LGBTQ+ – che nel 2019 rifiutò di incontrare Trump dopo la vittoria al Mondiale, dichiarando: “Non andrò alla fottuta Casa Bianca. Lui non rappresenta i valori in cui credo.” E lo dimostrano ogni giorno lavoratori e lavoratrici ben meno tutelati, come i portuali che, nei porti italiani ed europei, si rifiutano di caricare navi dirette in Israele perché trasportano strumenti di morte. Se la coscienza può trovare spazio nelle banchine dei porti, non può essere considerata un lusso inaccessibile su un campo da calcio. Chi ha voce e privilegio ha anche responsabilità, e raccontarsi come spettatore passivo non è solo una forma di auto assoluzione: è, ancora una volta, una scelta.
Il problema, dunque, non è solo simbolico. È culturale. È il modo in cui il calcio viene piegato a funzione geopolitica, al servizio del potere economico. La retorica secondo cui “lo sport non è politica” è una favola smentita ogni giorno dai fatti. Il calcio moderno è uno strumento potentissimo di legittimazione e influenza, e le società calcistiche globali, come la Juventus, si muovono ormai come attori para-istituzionali, capaci di rappresentare nazioni, interessi e ideologie. La FIFA di Infantino, con i suoi intrecci economici, sportivi e politici è l’esempio più eclatante; ma oggi anche un club come la Juventus diventa strumento di diplomazia parallela. Una diplomazia in cui il marketing vale più della coerenza, e il profitto più dei diritti.
Il silenzio della Juventus non è un dettaglio secondario. È una dichiarazione politica. È la conferma che i vertici del club, pur di non compromettere relazioni industriali e alleanze strategiche, sono disposti a ignorare pubblicamente le parole di un leader che ha basato la propria carriera sulla discriminazione e sulla violenza. Ma quando si ha il potere e si sceglie di tacere, non si è neutrali: si è complici.
E allora sì, questo silenzio è inaccettabile. Perché mentre le calciatrici come Rapinoe dimostrano che dire no è possibile, chi guida uno dei club più importanti del mondo sceglie di sorridere accanto a Trump. E in quel sorriso – che sia per calcolo economico o per cinismo politico – c’è tutto il volto di un calcio che ha smesso di essere sport per diventare ingranaggio del potere politico ed economico di questa società.
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